Di Luciano Muhlbauer
Chissà se alla fine la Turandot andrà in scena il Primo Maggio. Il
Sovraintendente Pereira ne sembra convinto e, infatti, non sarà facile
per i delegati e lavoratori “ribelli” resistere. Contro di loro si è
scagliata un vera e propria armata istituzionale, dai vertici nazionali
del loro sindacato, cioè la Cgil, fino allo stesso Renzi, che alla
maniera dei bulli ha annunciato in diretta tv provvedimenti contro i
“boicottatori”. E poi, non c’è soltanto il bastone delle minacce, ma
anche la carota del “lavorate e in cambio dedichiamo la serata alle
morti sul lavoro”. Argomento potente, sempre tirato in ballo quando
serve una foglia di fico, ma solitamente dimenticato quando si tratta di
prendere decisioni concrete.
Nella vicenda scaligera c’è qualcosa di terribilmente simbolico,
qualcosa che rispecchia lo status e il valore che il discorso dominante
assegna oggi al lavoro e a chi lavora. E non mi riferisco al quesito se
sia ammissibile che si possa lavorare il primo maggio, perché da sempre,
anche in tempi ben migliori per i lavoratori, c’è sempre stato chi ha
dovuto lavorare per assicurare alcuni servizi, così come c’è chi da
sempre lavora a Natale, a Pasqua o a Ferragosto. No, il punto vero è un
altro, cioè che a nessuna istituzione sia venuto in mente che magari non
era il caso di far coincidere l’inaugurazione di Expo con il Primo
Maggio.
Una svista che la dice lunga, ma che fa il paio con l’approccio
generale di Expo in materia di lavoro, assunto sempre e soltanto come
costo da comprimere e fattore da rendere flessibile e docile. E così,
questioni come i diritti o la dignità delle persone finiscono in fondo
alla lista delle cose importanti, un po’ come succede nella
Weltanschauung di Marchionne o nello Jobs Act di Renzi. Già, perché se è
ovvio che i posti di lavoro legati a un evento che dura sei mesi siano a
tempo determinato, un po’ meno ovvio è che si faccia dumping sullo
stesso contratto precario, inventandosi forme contrattuali creative come
quella di “apprendista di Operatore di Grande Evento” oppure
sponsorizzando indecenze come l’”apprendistato in somministrazione”. Poi
c’è ovviamente anche tutto il resto, dagli stage alla formazione on the
job, per finire con quel famoso lavoro gratuito, che oltrepassa
pericolosamente il confine tra volontariato e lavoro non retribuito.
Ebbene sì, Expo è anche una grande fiera della precarietà, che
peraltro estende i suoi effetti nello spazio e nel tempo, grazie a
accordi e deroghe come quelli promossi da Regione Lombardia. È colpisce
quanto in tutta questa vicenda siano state flebili o isolate le voci
critiche e che praticamente tutti questi accordi, avvisi comuni e
protocolli, a livello milanese e regionale, portino la firma dei
sindacati confederali, i quali oscillano tra la subalternità più
completa e il tentativo di limitare i danni.
Ecco, il quadro generale è questo e la vicenda scaligera, al di là
delle sue ovvie e legittime specificità, andrebbe letta in quest’ottica.
Peraltro, non c’è solo la Scala, ma c’è maretta anche tra i lavoratori
dell’Atm e di altri servizi pubblici, poiché Expo chiede di lavorare di
più, ma poi non si capisce se ci siano i soldi per contratti e
straordinari.
Insomma, quei ribelli della Scala che oggi vengono sottoposti a un
ignobile linciaggio mediatico forse non hanno tutti i torti, anzi, hanno
ragioni da vendere. Comunque vada a finire con la Turandot, Milano
dovrebbe ringraziarli, perché hanno ricordato a tutti che lavoro deve
fare rima con dignità e diritti, anche in tempi di crisi e Expo.