La Paga da Squalo di Lissner e lo Scontro per la Scala
by Red Proof
Quando era direttore del festival di Aix-en-Provence, Stephane Lissner – francese di madre ungherese e padre moscovita diventato parigino – lo chiamavo “le requin”, lo squalo. Nel giugno del 2003 mostrò i denti agli intermittenti dello spettacolo in lotta contro la riforma del sussidio di disoccupazione e loro glieli trapanarono alla radice facendogli chiudere baracca e burattini. Alla Scala Lissner è arrivato nel maggio 2005, primo sovrintendente straniero chiamato dal consiglio d’amministrazione a risollevarne le sorti artistiche dopo la guerra intestina tra Riccardo Muti, allora direttore musicale, e Carlo Fontana, sostituito nella carica di sovrintendente da Mauro Meli, cacciato in brevissimo tempo a furor di maestranze.
“In cinque anni farò della Scala il teatro d’opera più importante del mondo” dichiarò Lissner appena insediatosi. Ma di anni ne sono trascorsi sette e tutto questo di salto d’importanza nessuno l’ha visto. Lo attesta anche un recente rapporto stilato dalla società di consulenza McKinsey, e secondo cui le potenzialità del teatro sono di gran lunga superiori a quelle espresse dal suo management. A fronte di un aumento degli spettacoli lo scadimento artistico del teatro è del resto evidente, sottolineato dalle reiterate defezioni dei maggiori cantanti già scritturati, ultime Nathalie Dessay e Anna Netrebko che hanno rinunciato alle recite di “Manon” in scena dal 19 giugno al 7 luglio (la Netrebko aveva già dato forfait anche in “Don Giovanni”); poi Diana Damrau che doveva tenere un recital di canto annullato. Inoltre, defezioni anche da parte di celebrati direttori d’orchestra come Semyon Bychkov (forfait ne “La donna senz’ombra”) ed Esa-Pekka Salonen, che ha rinunciato a tre concerti sinfonici.
Management mediocre quello della Scala, non all’altezza della tradizione, meno che meno del ruolo ricoperto: autoritario – voglio posso comando – arrogante nei rapporti coi lavoratori fino al mobbing. Lissner racconta d’essere un uomo al dialogo, che ad Aix-en-Provence si adoperava per scongiurare gli scioperi. Stronzate! Negli ultimi tre anni la Scala – difesa dallo studio legale di Pietro Ichino, il giuslavorista e senatore Pd – ha perso 180 cause di lavoro intentate da lavoratori precari, ricorrendo quasi sempre in appello per perdere di nuovo. E alle lavoratrici serali, sarte e parrucchiere che hanno vinto la causa, ancora oggi non vengono riconosciuti i diritti d’assunte a tempo indeterminato. Di capacità di dialogo, il monsieur – unitamente al direttore generale Maria di Freda – ne ha mostrato assai poca. La stessa Di Freda, ex impiegata dell’area sistemi informativi del teatro ed ex delegata sindacale, è stata nominata da Carlo Fontana nel 1991 direttore del personale dalla sera alla mattina. Poi responsabile dal 1998 degli affari istituzionali, dopo il passaggio della Scala a fondazione, quindi direttore generale dal 2008 (un DG di uno dei più grandi e prestigiosi teatri al mondo che all’alba del 2012 stenta a parlare inglese, ma è in orbita Pd).
Il nuovo statuto della fondazione recentemente approvato, che attribuisce al teatro una nuova autonomia gestionale la quale conferisce al sovrintendente “un’autonomia enorme”, come spiegato dal ministro per i Beni e le Attività culturali Ornaghi, oltre a un potere assoluto sulla stipula dei contratti aziendali, è la prova evidente della “marchionizzazione” in atto alla Scala. Una situazione denunciata da tempo dalla Cgil, che in vista dell’incontro tra le parti (Roma, 4-5 luglio) per il rinnovo del contratto nazionale – che impedisce ai sovrintendenti di spolpare i contratti aziendali, consentendo inoltre la stipula dei futuri contratti integrativi, tra cui quello riguardante il periodo di Expo 2015 – ha indetto un referendum consultivo svoltosi tra il 21 e il 22 giugno e che ha visto il 70% dei lavoratori esprimersi su due quesiti. Al primo: sei favorevole alla contrattazione collettiva a livello nazionale oltre a quella aziendale? Hanno risposto sì in 519; no 25; e 9 schede bianche. Al secondo: sei favorevole a contenere l’apporto dei privati entro limiti che consentono una gestione essenzialmente pubblica del teatro? I sì sono stati 504, a fronte di 37 no e 12 schede bianche.
Pochissimo dialogo, totale mancanza di relazioni sindacali e di un protocollo sulla sicurezza, tanti sprechi, ma in compenso tanti soldi. Lissner prende 450mila euro fissi, più una parte che varia in base agli obiettivi prefissati e raggiunti di circa 155mila euro; ai quali sommare 85mila l’anno per l’appartamento in piazza del Carmine; 200mila tra Tfr, versamenti Inps e oneri vari, 70mila euro dell’auto blu con autista, carta di credito e spese di rappresentanza il cui ammontare nessuno, nemmeno tra i consiglieri di amministrazione, è ancora riuscito a stimare con precisione. Totale: 1.000.000 e passa di euro. Oltre il triplo di Barack Obama, che all’anno ne guadagna 300.000. Inoltre, col nuovo lucroso contratto blindato fino al 2017, Lissner otterrà un buonuscita di 300mila euro. In barba alla strombazzata autoriduzione del 10% dello stipendio suo e di altri undici manager della Scala – annunciata mediante conferenza stampa. La quale si applica solo alla retribuzione fissa e non a quella complessiva, quindi per Lissner si tratta di quarantamila euro su un milione. Ma soprattutto, e questo sì sarebbe un vero coup de théâtre, tra i corridoi della Scala gira insistentemente la voce che si tratti di una riduzione una tantum, mica permanente!
Rientrato da Londra, Lissner ha trovato sulla scrivania una missiva del Comune che chiede di poter visionare tutte le carte utili a ricostruire la situazione dei bilanci. A proposito dei quali, nel corso di un incontro svoltosi lo scorso sei del mese tra sindaco, direzione del teatro e sindacati, Pisapia ha sottolineato la certezza del finanziamento storico del Comune di Milano. Confermando che per quanto riguarda la forma organizzativa speciale ritiene che non sia una privatizzazione, poiché considera la Scala bene pubblico della città e del paese, affermando testualmente, e garantendo che “finché ci sarò io come sindaco di Milano garantirò per impedire ogni eventuale rischio di privatizzazione”. Inoltre, Pisapia ha chiesto un secondo incontro coi sindacati per entrare nel dettaglio degli sprechi, unitamente alla documentazione riguardo alcuni casi di sanzioni disciplinari comminate per testimonianze rese al tribunale del lavoro.
E’ possibile che si tratti di uno scontro interno al potere milanese. Qualcuno sussurra che dietro al fronte che resiste a Lissner vi sia Francesco Micheli, finanziere musicofilo, buon conoscitore di teatro, e sostenitore di Pisapia alle scorse elezioni – ex signor Fastweb, ex presidente del Conservatorio di Milano – recentemente estromesso dal CdA della Scala per far posto ad Alessandro Tuzzi, vicedirettore amministrativo dell’Università Cattolica e portaborse del ministro Ornaghi. Micheli che circa i bilanci ha avuto modo di dichiarare: “Se non fosse per i contributi giunti solo grazie alle capacità di Bruno Ermolli, la Scala avrebbe bilanci scassati come gli altri teatri lirici italiani. Oggi il bilancio preventivo è in equilibrio formale a condizione che quest’anno venga coperto un differenziale negativo sugli otto milioni. La previsione di pareggio si basa sul presupposto che arrivi un nuovo socio e che le istituzioni pubbliche non solo non taglino ma addirittura diano maggiori apporti. Cosa, questa, piuttosto velleitaria, visti i chiari di luna”.
E riguardo al management: “Alla Scala c’è un blocco d’interessi che non sopporta chi è critico sulle scelte del teatro” s’è espresso Micheli aggiungendo: “Ed è noto che c’è una lobby interna. Stanno riducendo la Scala a prodotto turistico, come il Colosseo. Peccato però che la Scala non sia un monumento archeologico. Così è la sua morte culturale”. Uno scontro di lobby sul quale i cittadini finora non hanno avuto alcuna voce in capitolo.