DUE
O TRE COSE SULL'ARTICOLO 18 PER LA MANIFESTAZIONE DEL 25 OTTOBRE
(di
Leo Ceglia, Milano 13 ottobre 2014)
Con questo scritto ci
proponiamo di fornire argomenti a favore dell'art.18 dello Statuto
dei Lavoratori per ribadire anche su questo versante le ragioni della
manifestazione del 25 ottobre 2014 indetto dalla CGIL contro il Jobs
act del Governo Renzi che vorrebbe “riformarlo”. Ricostruiremo la
storia dello Statuto e ne illustreremo la struttura. In questo modo
si capirà bene perché il suo articolo 18 ne è l’architrave e
perché esso accende ancora la passione politica sindacale e civile
di tanti di noi (e di chi politicamente e sindacalmente la pensa
diversamente da noi). Le ragioni della manifestazione della CGIL
sono anche altre e in primo luogo la richiesta al governo di
abbandonare le politiche di austerità e di mettere all'ordine del
giorno l'urgenza prima del Paese, e cioè politiche per
l'occupazione. Noi però non ci occuperemo di questo, ci occuperemo
solo di art. 18 perchè su ciò, a nostro parere, la confusione e la
mistificazione è massima.
Sulle
origini dello Statuto dei Lavoratori
Forse non tutti sanno che
“Statuto dei Lavoratori” non è il vero nome della legge 300 del
27 maggio 1970. Il nome vero della legge 300 è il seguente:
<<norme sulla tutela della libertà e dignità dei
lavoratori, della libertà sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento>>.
Perché allora questa
legge è conosciuta e da tutti è chiamata “Statuto dei
Lavoratori”? La ragione sta nelle sue origini, e le sue origini
rimandano a Di Vittorio.
Fu Giuseppe Di Vittorio,
al Congresso della CGIL nel 1952, a Napoli, a parlare per primo
della necessità di uno “Statuto” dei Lavoratori e lo fece con
queste parole:
<<E’ vero
che le fabbriche sono di proprietà privata(…) non per questo i
lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone
all’interno dell’azienda. Il lavoratore, anche sul luogo di
lavoro, non diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal
padrone, e di cui questo possa disporre a proprio compiacimento.
Anche sul luogo di lavoro l’operaio conserva intatta la sua dignità
umana, con tutti i diritti acquisiti dai cittadini della repubblica
italiana (…). Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un
suo amor proprio, una sua idea, una sua apinione politica, una sua
fede religiosa, e vuole che questi diritti siano rispettati da tutti
e, in primo luogo, dal padrone (…) perciò sottoponiamo al
Congresso un progetto di “Statuto” che intendiamo proporre (…)
alle altre organizzazioni sindacali (…) e lottare per ottenerne
l’accoglimento e il riconoscimento solenne>>.
18 anni dopo, il ministro
del lavoro Giacomo Brodolini, ex segretario confederale CGIL, fece
approvare in Parlamento la Legge 300 (il cui testo fu elaborato da
giovani giuristi guidati da Gino Giugni). Come abbiamo visto il
titolo della legge è lungo e dettagliato, ma nella testa di tutti
rimane il nome evocato da Di Vittorio.
La parola Statuto
indicava bene quanto da lui auspicato. La legge stabiliva che anche
sul luogo di lavoro l’operaio (il lavoratore) non poteva più
essere considerato dal padrone una “cosa”, una “macchina”,
di cui poter disporre a piacimento. Anche sul luogo di lavoro e nel
tempo di lavoro il lavoratore doveva restare un uomo, una persona,
con la sua propria dignità, il suo amor proprio, con le sue idee
politiche, la sua fede religiosa, e quindi anche nel luogo di lavoro
egli veniva a godere di tutti i diritti che la Costituzione gli
riservava di fronte allo Stato e alla società civile come cittadino.
La parola Statuto riassumeva bene tutto ciò e per questo ancora oggi
la si usa.
In altre parole, nella
Legge 300 si diceva che, dal punto di vista costituzionale, il
lavoratore stava all’impresa e al datore di lavoro come il
cittadino stava allo Stato e alla società civile. Gli stessi
diritti costituzionali che nella società civile garantivano la
libertà del cittadino e la dignità della persona dovevano valere
per il lavoratore nel luogo di lavoro (si tratta naturalmente del
medesimo individuo: persona e cittadino nella società civile,
lavoratore nel luogo di lavoro). Per questo allora si disse, e non
solo a sinistra, e vi è una letteratura giurisprudenziale sterminata
al riguardo, che con lo Statuto la Costituzione “entrava” nei
luoghi di lavoro. E prima? Prima ne era “fuori”.
Nel dibattito di oggi si
dimentica che dal dopoguerra al 1970 furono decine di migliaia i
lavoratori e le lavoratrici che vennero licenziati “senza giusta
causa” per pura e semplice rappresaglia politico / sindacale
oppure per protervia padronale. Si poteva licenziare come è noto “ad
nutum”, con un cenno della testa. E in questo modo i diritti
costituzionali di libertà e dignità del lavoratore venivano tenuti
fuori dal luogo di lavoro. Il lavoratore era costretto a stare
attento a manifestare le sue opinioni , le sue idee, la sua
appartenenza o simpatia politico sindacale ecc. Proprio quel che Di
Vittorio denunciava nel primissimo dopoguerra. Fu talmente ampio il
fenomeno dei licenziamenti per rappresaglia padronale che ex post,
nel 1974, si cercò di rimediare a quelle ingiustizie con una legge
apposita, la n. 36/74. Questa legge stabiliva che a quei licenziati
“senza giusta causa” né “giustificato motivo” venisse
ricostruita la carriera pensionistica con contributi figurativi per i
periodi di disoccupazione seguiti a quei licenziamenti. Non furono
molti ad usufruirne perché molti erano morti o emigrati o per
difficoltà nel reperire la documentazione. Ma qualche migliaio ne
beneficiò ottenendo così la “giusta pensione”.
E in che modo lo Statuto
portò la Costituzione nei luoghi di lavoro? Nell’unico modo
possibile, sottraendo al padrone il licenziamento ad nutum,
arbitrario, e vincolandolo alla reintegra sul posto di lavoro del
lavoratore licenziato illegittimamente (cioè senza giusta causa o
giustificato motivo, oggettivo e/o soggettivo). Da qui l’articolo
18, senza il quale, nei luoghi di lavoro, tutti gli altri diritti
dello Statuto vengono depotenziati fino a poter divenire puramente
cartacei e non esigibili.
Le
“due parti” dello Statuto, quella costituzionale e quella
sindacale, ovvero la struttura dello Statuto dei lavoratori
L’originario art. 18
dello Statuto si intitolava <<Reintegrazione nel
posto di lavoro>>.
Esso era l’ultimo
articolo del Titolo II (<<della libertà sindacale>>,
gli altri articoli erano, dal 14 al 17 nell'ordine, <<diritto
di associazione e di attività sindacale>>, <<atti
discriminatori>>, <<trattamenti economici collettivi
discriminatori>>, <<sindacati di comodo>>).
<<Della libertà e dignità del lavoratore>> si
intitolava invece il Titolo I. Questo conteneva i primi 13
articoli che avevano (hanno ancora) i seguenti titoli (evitiamo di
scrivere tutte le volte art. e le virgolette): libertà di opinione,
guardie giurate, personale di vigilanza, impianti audiovisivi,
accertamenti sanitari, visite personali di controllo, sanzioni
disciplinari, divieto di indagini di opinioni, tutela della salute e
della integrità fisica, lavoratori studenti, attività culturali
ricreative e assistenziali, istituti di patronato, mansioni del
lavoratore.
Crediamo di essere nel
vero se diciamo che già i titoli dei singoli articoli siano
autoesplicativi dei problemi che allora nei luoghi di lavoro i
lavoratori e le lavoratrici avevano riguardo alle fondamentali
libertà sindacali e alla loro dignità e libertà personale nel
posto di lavoro. Allo stesso modo si coglierà immediatamente che gli
stessi titoli degli articoli riguardano quasi con le stesse parole
articoli fondamentali della Costituzione relativamente al diritto di
opinione ed espressione, di difesa della persona fisica e della
persona umana, il diritto allo studio, alla professionalità, alla
riservatezza, alla associazione sindacale, ecc.
Tutti questi diritti
costituzionali sono realmente esercitabili nei luoghi di lavoro solo
se non sei licenziabile per le idee che manifesti, per la tessera
sindacale o di partito che hai, per il tuo orientamento sessuale, per
la tua eventuale fede religiosa, per la tua nazionalità, e così
via. Se invece sei licenziabile in qualunque momento e il datore di
lavoro si può sbarazzare di te con un indennizzo economico allora
quei diritti sono depotenziati e si troverà sempre un padrone che
arriverà a trattare il lavoratore come una “cosa”, una sorta di
“instrumentum vocalis”, e se ne sbarazzerà .
L’articolo 18 pose fine
così ai licenziamenti individuali definiti dal giudice
“illegittimi”. La sanzione per il padrone era la reintegrazione
sul posto di lavoro. Era eventualmente il lavoratore a poter
scegliere una soluzione economica qualora il clima in azienda fosse
comunque divenuto “irrespirabile".
Lo Statuto però non è
stato (e non è) importante solo per la sua “parte costituzionale”,
cioè per i Titoli I e II, esso è stato importante anche per una
“seconda parte”, la cosiddetta “parte sindacale”, vale a dire
per il titolo III, <<dell’attività sindacale>>,
quello che rimanda a (art. dal 19 al 27): rappresentanze sindacali
aziendali, le assemblee, referendum, trasferimento dei dirigenti
sindacali, permessi sindacali retribuiti e non retribuiti, diritto
di affissione, contributi sindacali e locali per il sindacato. Anche
qui i titoli degli articoli sono autoesplicativi.
Lo Statuto dunque
riconosceva promuoveva e favoriva l’attività sindacale nei luoghi
di lavoro. Perché?
Dovrebbe essere
immediatamente evidente che il legislatore ha stabilito un nesso
profondo tra le due parti, nesso che consiste nella dialettica
positiva che tra esse si instaura laddove la parte dei diritti
costituzionali favorisce lo sviluppo di quella sindacale e
quest’ultima garantisce il consolidamento (anche su base
collettiva) della prima. Diciamo pure che le due parti si alimentano
l’un l’altra.
E perché si è
favorita l’attività sindacale nei luoghi di lavoro? Perché lo
richiedeva (e lo richiede ancora) la nostra Costituzione. La nostra
Costituzione riconosce al sindacato e ai lavoratori organizzati un
ruolo assai importante per lo sviluppo di una società equa e giusta,
dove il lavoro possa essere sia un diritto che un dovere. Lo fa, come
è noto, con i primi 4 articoli e con l’intero Titolo III
<<rapporti economici>> (art. da 35 a 47) dove c'è in
particolare l'art. 39 che consente ai sindacati di stipulare
contratti nazionali valevoli erga omnes. Fatto è che parte
costituzionale e parte sindacale hanno dato e danno alla struttura
dello Statuto dei lavoratori un'efficacia davvero forte. Da un lato
si rende forte il singolo lavoratore con l'art.18 che può così
lavorare tranquillamente a “testa alta” di fronte al suo datore
di lavoro perché è tutelato dalla “parte costituzionale” dello
Statuto nei suoi diritti e nella sua dignità di persona umana, e
dall'altra, con la “parte sindacale” si permette al sindacato (al
medesimo lavoratore organizzato) di operare nei luoghi di lavoro
nelle migliori condizioni.
In parole povere,
lo Statuto dei lavoratori, grazie alla tutela dell'art.
18, limita il potere del padrone / imprenditore nella sua azienda e
sottolinea il ruolo positivo e importante dei sindacati e del
lavoratore nel luogo di lavoro e nella società.
E' per questo che la sua
manomissione è fortemente ricercata da chi vede il sindacato come il
fumo negli occhi, e non ammette che nella impresa e nella società
sindacati e lavoratori debbano avere così tanto potere e ruolo. E
viceversa, la sua manomissione viene fortemente osteggiata da chi
vede nello Statuto una delle conquiste più importanti del movimento
dei lavoratori e della democrazia tout cout nel nostro Paese.
Per capirci, proviamo a
chiederci: cos'è un diritto?
Vedremo che la risposta
che più si avvicina al vero è che UN DIRITTO È UNA PORZIONE DI
POTERE che fa capo alle persone in forma individuale e/o associata.
Qualunque diritto ha questa connotazione.
Dunque lo Statuto dei
lavoratori ha trasferito a lavoratore singolo e /o associato e ai
sindacati un potere in azienda e nella società che prima non
avevano. Con l'art. 18 questo potere ha potuto (e può ancora)
dispiegarsi in tutte le sue potenzialità. E viceversa. Se si toglie
l'art. 18 si toglie potere al singolo lavoratore e ai sindacati e
questa quota di potere la si riconsegna al padrone / imprenditore. In
definitiva lo scontro sull'art. 18 è uno scontro su chi e quanto
comanda in fabbrica (le fabbriche esistono ancora, e in esse sopra i
15 dipendenti, nel solo settore privato, vi lavorano 8 milioni di
lavoratori).
Quelli che periodicamente
tornano ad aggredire l'art.18 e lo Statuto dei lavoratori vogliono
semplicemente affermare il primato dell'impresa sul lavoro e
nell'impresa vogliono più potere di quanto ne hanno oggi. Va da sé
che più potere padronale nei luoghi di lavoro significa anche sul
piano culturale moltissimo. Quando Renzi sbotta nella direzione del
suo partito in diretta streaming, e quindi in diretta TV,
rivendicando come ovvio che sia l'imprenditore e non un giudice a
dover decidere se un lavoratore gli serve ancora o meno, vuol dire
che il valore del lavoro, il diritto del lavoro e la cultura
giuslavorista, nella gerarchia dell'insieme dei valori che
costituiscono il tessuto sociale e civile del nostro Paese , è
scivolato negli ultimissimi posti. E ciò non promette nulla di buono
per il futuro decorso della crisi che stiamo attraversando.
Il
limite principale dello Statuto dei lavoratori: non vale per tutti.
Il campo di applicazione
dello Statuto dei lavoratori è circoscritto alle aziende con più di
15 dipendenti. Questa scelta del legislatore fu il risultato di un
compromesso con chi osteggiava allora lo Statuto. Le ragioni di
questa limitazione rimandavano grosso modo all'argomento che nelle
piccole aziende, il “rapporto
di fiducia” tra lavoratore e datore di lavoro fosse troppo
importante per impedire a quest'ultimo di licenziare questo o
quel lavoratore se tale rapporto fiduciario fosse venuto meno. E'
noto che sulla legge 300 il PCI si astenne proprio perché si
limitava il campo di applicazione alle aziende con 15 dipendenti.
Anche il PCI però riconosceva alla legge un contributo importante
alla cultura giuslavorista nel nostro Paese. Naturalmente negli
anni si cercò di rimediare a questa limitazione.
Nel 1981 la Federazione
CGIL -CISL-UIL presentò una proposta di legge di iniziativa popolare
(pubblicata in G.U. n. 135/1981) finalizzata a garantire soluzioni
consensuali e favorevoli al lavoratore, in caso di licenziamento
senza giusta causa, nelle aziende sotto i 15 dipendenti.
Democrazia Proletaria nel
1982 raccolse le firme per un referendum teso a estendere lo Statuto
ma la Corte Costituzionale lo ritenne inammissibile. La stessa DP
ci riprovò nel 1990 e questa volta il quesito fu accolto. Una legge
(L. 108 / 1990) evitò la votazione perché rendeva la giusta causa
necessaria per tutti i licenziamenti anche sotto i 15 dipendenti, ma
invece che la reintegra si prevedeva la tutela obbligatoria, cioè
una soluzione economica.
Con
gli anni novanta esplodono la globalizzazione e il liberismo, inizia
l'aggressione all'art. 18.
Con il crollo del muro di
Berlino esplode la globalizzazione liberista. Per competere sui
mercati mondiali si assiste ad una corsa sia alle innovazioni
tecnologiche sia al più classico strumento capitalistico a
disposizione del padrone/imprenditore, l'aumento dello sfruttamento
dei lavoratori. Quest'ultimo viene ricercato sia attraverso le
delocalizzazioni sia attraverso la moltiplicazione di forme di lavoro
precario perché ambedue abbassano i salari. Ci sono multinazionali
come la APPLE che abbinano il massimo della ricerca e della
innovazione tecnologia con il massimo dello sfruttamento nella
produzione dei loro prodotti, fatti in aziende di paesi dove il
salario è più basso e il sindacato inesistente. Come è noto anche
gli imprenditori / padroni italiani amano la delocalizzazione e
oltre 1 milione di lavoratori lavorano in aziende italiane
all'estero. In questo clima “post-'89” la cosiddetta cultura
giuslavorista di matrice costituzionale comincia vigorosamente
ad essere aggredita e a perdere terreno.
Scioglimento del PCI da
un lato e Berlusconi al governo dall'altro conducono via via alla
prime forme di precariato nel mercato del lavoro (la cosiddetta legge
Treu, la legge 196/1997 è quella che introduce il lavoro interinale
e quello con contratti co.co.co.), e qualche anno dopo all'attacco
frontale all'articolo 18, cioè allo Statuto dei lavoratori.
Viene elaborata la
“teoria del mercato del lavoro duale” (tra i principali
ispiratori di tale teoria il professore Ichino) . Questa teoria
sostiene che, per la fuoriuscita dal mercato del lavoro, necessaria
alle aziende in tempi a forte concorrenza, i lavoratori tutelati
dall'art. 18 siano in un posto di lavoro “ troppo sicuro”
rispetto a quelli non tutelati perché in aziende sotto i 15
dipendenti. Questo dualismo del mercato del lavoro in uscita avrebbe
allora provocato un dualismo anche nel mercato del lavoro in entrata
e le aziende sarebbero così state costrette ad assumere lavoratori
sempre più con forme di lavoro precario per evitare di dover
sottostare all'art. 18 nel caso avessero avuto bisogno di sbarazzarsi
di loro. L'ipertutela dei padri avrebbe cioè generato la precarietà
dei figli, nella sintesi di Ichino e Sacconi agli inizi di questo
millennio. Dunque una squalifica radicale e inappellabile
dell'art.18. Esso non veniva più indicato come un diritto ma veniva
ad essere indicato come un privilegio. Privilegio ingiusto e
fonte di guai per le imprese e per i giovani.
Si tratta di falsità. La
precarietà e i bassi salari sono il prodotto della globalizzazione
liberista non dell'articolo 18. Già dopo il crollo dell'Unione
Sovietica nel 1989 la globalizzazione ebbe una forte crescita, ma a
fine millennio letteralmente esplose. Ci riferiamo a una data
precisa perché nel 1999 si è data la possibilità alla Cina di
divenire “la fabbrica del mondo” e a Wall Street e Londra di
accrescere in modo iperbolico il peso del capitalismo finanziario e
deregolamentato. Bill Clinton quell'anno cancellò negli USA la legge
di Roosevelt del 1933, il famoso <<Glass Steagall Act >>
che stabiliva la separazione tra banche commerciali e banche di
investimento (in tal modo le banche di investimento non potevano
utilizzare i soldi dei risparmiatori per i loro giochi in borsa senza
l'autorizzazione dei risparmiatori stessi). Dopo la legge voluta da
Clinton molti capitali in occidente hanno smesso di produrre beni
nella economia reale per finire sui mercati finanziari dove guadagni
e/o perdite e adrenalina (alcuni psicologi sostengono che il gioco in
borsa crei “dipendenza”) sono incomparabilmente maggiori che
nella cosiddetta economia reale. La Cina ha prodotto al loro posto,
con orari e salari inconcepibili allora in Europa e negli USA. E'
questo che in occidente ha prodotto il dilagare delle
delocalizzazioni e del precariato. Molti in occidente hanno
cercato inizialmente di resistere alla concorrenza dei prodotti
cinesi sia con le delocalizzazioni sia con i bassi salari veicolati
sui precari. Ma nonostante ciò anche a sinistra si è stati
sensibili alle tesi del dualismo di mercato. Così con D' Alema al
governo si propone per la prima volta la sospensione dell'art. 18 per
i nuovi assunti per 3 anni. E lo scontro del governo D'Alema con la
CGIL di Cofferati fu durissimo.
Con Berlusconi al
governo, 2 anni dopo, la replica. Il 23 marzo 2002 la CGIL di
Cofferati, contro l'intenzione di Berlusconi di cancellare l'art. 18,
riempì il Circo Massimo con la più grande manifestazione del
dopoguerra e il tentativo venne respinto.
L'anno successivo
l'ultimo tentativo della sinistra di estendere lo Statuto dei
lavoratori fu promosso dal “movimento dei consigli”con un
referendum. Esso però non raggiunse il quorum, anche se va
sottolineato che oltre 10 milioni di italiani votarono a favore
dell'estensione.
Lo stesso anno però, a
febbraio, Berlusconi fa approvare la Legge 30/2003. Una legge delega
che a settembre porterà al Dlgs. 276/2003 (cosiddetta legge Biagi)
che precarizzerà l'ingresso nel mercato del lavoro con ben 44 forme
di lavoro.
Oggi, 12 anni dopo, con
il Jobs act, ci risiamo. Tornano pari pari in auge con il primo
ministro Renzi le teorie del dualismo del mercato del lavoro (che
egli chiama con un linguaggio alla Sgarbi aphartaid) il quale sembra
averle accolte solo recentissimamente. Solo fino a prima dell'estate
sosteneva infatti che l'art. 18 non era un problema.
Fatto è che ora come
allora si sostiene che la “riunificazione” del mercato del lavoro
senza l'articolo 18 darebbe vita alla ripresa dello sviluppo, alla
ripresa dell'occupazione, alla scomparsa del precariato, alla discesa
dello spread e quindi del debito pubblico ecc. Il che implica
viceversa che chi osteggia tale “riforma strutturale” si rende
responsabile di tutti i mali di cui sopra. Da qui l'accusa di
conservatorismo alla CGIL. Anche quanti la pensano come la CGIL
vengono squalificati come “novecenteschi” se non addirittura
“ottocenteschi” (in certi ambienti e su quasi tutti i media
sembra essere questo l'insulto peggiore che si possa rivolgere
all'avversario politico e sindacale).
Cosa c'è di vero nelle
tesi di tale rappresentazione? Non c'è niente come abbiamo detto.
C'è solo tante bugie che ripetute mille volte finiscono per essere
credute.
Che cosa c'entra l'art.
18 con la crisi? Niente. Gli USA ad esempio sono entrati e stanno
uscendo dalla crisi senza che vi sia nulla che assomigli all'art. 18.
Sono precipitati nella crisi per l'avidità e la stupidità dei
pescecani dei subprime e ne stanno uscendo con dosi massicce di
interventi pubblici e di innalzamento del debito. In Europa abbiamo
paesi con l'art. 18 e paesi senza. Tutti però nel tempo sono
ugualmente precipitati nella crisi e continuano a subirla perché in
Europa prevale il dogma liberista dell'austerità. Dunque con la
crisi l'art. 18 non c'entra niente.
E che cosa c'entra l'art.
18 con il precariato e con il dualismo del mercato del lavoro? Niente
come abbiamo già detto .
Quanto alla tesi che gli
imprenditori italiani ed esteri non assumerebbero perché c'è
l'art.18 è una tesi che lascia il tempo che trova. Un padrone assume
se ha bisogno e guadagna, e l'art. 18 è largamente secondario nel
fargli assumere una decisione in tal senso. Ci sono centinaia di
testimonianze padronali in questo senso, come ce n'è all'incontrario
(a volte facenti capo alla stessa persona, come è capitato al
Presidente di Confindustria Squinzi nel giro di pochi mesi.)
No. L'art. 18 non è
responsabile di tutti i mali di questo Paese come vorrebbe qualcuno.
L'articolo 18 rimane un diritto e non un privilegio, rimane il
diritto che permette di lavorare “a testa alta”. Per questo
andrebbe esteso a tutti e tutte, e non eliminato. Certo è un pezzo
del potere e del valore del lavoro che a qualcuno non piace. Si
tratta dei padroni / imprenditori e dei liberisti di tutto il mondo
che in Europa in particolare devono ancora ridurre e di molto sia il
peso dei sindacati sia lo stato sociale lasciatoci in eredità dalla
ricostruzione del secondo dopoguerra.
La prima aggressione
all'articolo 18 che avrà successo si ha con il governo Monti.
La
modifica all'art. 18 della cosiddetta legge Fornero (L. 92/2012)
Nel 2012 l'art. 18 viene
“manomesso” dalla cosiddetta legge Fornero. A cominciare dal
titolo. Ora il titolo è: <<tutela del lavoratore in caso
di licenziamento illegittimo>>, e
non più <<reintegrazione sul posto di lavoro>>.
Mentre fino ad allora la
reintegrazione sul posto di lavoro era la sanzione per tutte le
tipologie di licenziamenti illegittimi nelle aziende sopra i 15
dipendenti, ora con la legge Fornero si dà la possibilità al
giudice di derogare a questa regola e, per così dire, “monetizzare”
il licenziamento illegittimo.
Per comprendere in modo
semplice le norme della legge Fornero (in vigore dal 18 luglio 2012)
diremo che ci troviamo di fronte a 3 tipologie di licenziamenti
illegittimi.
a) La prima categoria
viene definita dei licenziamenti cosiddetti “discriminatori”
( ad es. in violazione delle norme che tutelano la maternità e i
congedi parentali, oppure le norme costituzionali che rimandano alla
non possibilità di essere discriminati per razza, idee politiche o
appartenenze sindacali, fedi religiose, genere, orientamenti
sessuali , ecc). In tutti questi casi (rarissimi) c'è la reintegra
e un indennizzo economico (cosiddetta tutela reale)
b) La seconda categoria
viene definita dei licenziamenti cosiddetti “disciplinari”
(ad es. tutte quelle mancanze che rimandano a colpe del
lavoratore sul lavoro). Qui sono previste due possibilità, la
tutela reale (cioè il reintegro), e la <<tutela
obbligatoria>> (cioè il licenziamento con indennizzo, una
sorta di monetizzazione del licenziamento). Chi decide? Il giudice.
Come sceglie il giudice? Con dei criteri prefissati. Ad es., se il
fatto non sussiste ( lavoratore accusato di aver rubato e poi si
scopre che non era vero) c'è la reintegrazione più indennizzo.
Negli altri casi, dove il fatto sussiste ma il licenziamento è
ugualmente illegittimo perché ad es. sul medesimo fatto il CCNL non
prevedeva il licenziamento, allora c'è la <<tutela
obbligatoria>> ( licenziamento con un indennizzo economico).
c) La terza categoria
viene definita dei licenziamenti cosiddetti “economici”
(rinvia a casi legati all'andamento economico o di organizzazione
del lavoro dell'azienda, ad es. scompare “quel” posto di
lavoro). Anche qui sono previste due possibilità, la tutela reale e
quella obbligatoria. Solo che la tutela reale sembra essere
impossibile da presentarsi nella realtà. Essa infatti è legata al
fatto che il motivo economico del licenziamento debba venir
riconosciuto dal giudice come <<manifestamente infondato>>.
Della serie...cà nisciùne è fesso.
Con queste 3 tipologie di
licenziamenti illegittimi la Fornero ha manomesso l'art. 18
lasciando certo sulla carta la tutela reale (il reintegro) in tutti e
3 i casi. Nei fatti però con la terza tipologia, il licenziamento
cosiddetto economico, ha dato la possibilità a qualunque datore di
lavoro “che non sia un fesso” di sbarazzarsi del lavoratore
indesiderato. Il motivo economico <<manifestamente infondato>>
è infatti una fattispecie alquanto misteriosa e tutta ancora da
scoprire. A chi obietta che il datore di lavoro è anch'egli un
lavoratore, che è bravo, e non si priva di un suo dipendente per un
“capriccio”, rispondiamo che non parliamo di quel datore di
lavoro, parliamo del datore di lavoro “capriccioso”, perché sì,
ci sono anche loro, e che se prima i loro “capricci” erano resi
sterili con l'art. 18, ora non lo sono più e possono perciò
dispiegare i loro effetti dannosi.
Il
Jobs act di Renzi, con la proposta del <<contratto a tempo
indeterminato a tutele crescenti>>, vuole togliere ogni dubbio,
la reintegra non c'è più.
Con il voto di fiducia
sulla legge delega (una vera e propria contraddizione in termini: se
il Parlamento delega il governo quest'ultimo non gli può mettere
fretta e addirittura chiedergli la fiducia) Renzi ha voluto
consegnare all'Europa liberista un messaggio assai chiaro. Anche i
simboli della stagione favorevole al lavoro vanno abbattuti, e
l'art.18 dello Statuto dei lavoratori è certamente stato uno dei
simboli più forti di una legislazione a favore delle classi
lavoratrici e del sindacato nel nostro Paese.
Ora Renzi si presenta in
Europa dicendo agli investitori internazionali venite ad investire in
Italia, potete licenziare come quando e chi volete nella vostra
azienda. Lo ha fatto con a fianco Marchionne, cioè con colui che per
primo nel 2011 andò allo scontro violentissimo con la FIOM e con
l'articolo 18 laddove licenziò 3 delegati a Melfi (delegati
reintegrati con l'art. 18 naturalmente).
Non c'è scritto ancora
nulla sul maxiemendamento che è stato approvato al Senato, ma dalle
interviste a Renzi, Serrachiani, Poletti ed altri è chiaro che la
novità rispetto alla Fornero è rilevante. Nelle 3 tipologie di
licenziamenti ve ne sarà una che non prevede la tutela reale ma solo
la tutela obbligatoria. Si tratta dei licenziamenti illegittimi di
natura economica. La tutela reale resterà per i licenziamenti
illegittimi discriminatori e disciplinari. Ma si può star certi che
nessun datore di lavoro vi ricorrerà.
Ci si può
scommettere: Tutti i licenziamenti illegittimi saranno di natura
economica.
Per ora la norma varrà
solo per i nuovi assunti con la formula del <<contratto a
tempo indeterminato a tutele crescenti>>. E il Governo ci
tiene a sottolineare che così non si tolgono diritti a nessuno
perché quelli che oggi godono dei benefici dell'art. 18
continueranno a goderne. Sono i nuovi assunti che nei primi 3 anni
non ne beneficeranno. E' opinione di chi scrive che siamo ormai alla
malafede dei sofisti. E' evidente che quella quota di assunzioni
(pur piccola, si dice ora appena sotto il 20% delle assunzioni) che
ancora avviene a tempo indeterminato e che beneficia in potenza
dell'art. 18 non vi sarà più. Non è togliere dei diritti questo?
Ma la cosa che più sbandiera il governo è quella che molte, se non
tutte, le forme precarie verranno soppresse dal contratto a tempo
indeterminato a tutele crescenti. Sarà! Per ora nel maxiemendamento
approvato con la fiducia al senato non c'è nulla di scritto in tal
senso.
Conclusioni.
Perchè Renzi si è
avventurato su questo terreno? Perchè ha spaccato con leggerezza il
suo partito? Perchè va allo scontro in maniera così sprezzante con
la CGIL? Perchè si è messo ad usare gli stessi argomenti di Sacconi
e Ichino e incassare così l'elogio dei direttori di “Libero”,
“Il Foglio”, “Il giornale”? Sono domande che si pongono in
tanti, nel PD e nella CGIL, ma anche sulla stampa.
La risposta per noi è
una sola: Il dictat dell'Europa dell'estate del 2011. Il dictat
contenuto nella famosa lettera firmata da Barroso e Draghi e che
mandò a casa Berlusconi e mise su Monti, è ancora operante e va
realizzato secondo la logica liberista dell'austerità. E Renzi
verrà sostenuto dall'Europa dell'austerità solo se realizzerà
integralmente il dictat del 2011 e le indicazioni e le politiche in
esso contenute.
Queste però sono le
politiche che ci hanno fatto perdere il 25% della manifattura, che
hanno causato un aumento della disoccupazione che è intorno al 13%
(e quella giovanile al 40%), che hanno portato il debito pubblico sul
PIL dal 115% al 130%, che hanno fatto crescere la povertà più del
doppio (sono ormai 9 milioni gli italiani che sono considerati
poveri), che hanno determinato un calo dei consumi attorno al 6%, che
hanno arrestato la crescita dei salari (il mancato rinnovo dei
contratti pubblici è scandaloso) , che hanno aumentato le
diseguaglianze anche nel nostro Paese e raddoppiato simultaneamente
il numero dei milionari e i miliardari, ecc.
Il sindacato e la
sinistra non possono essere complici di queste politiche.
Senza l'art. 18 e il
conseguente minor potere di sindacati e lavoratori questo declino del
Paese è destinato ad acquistare velocità ed estensione. Per questo
la CGIL manifesta il 25 ottobre a Roma. E lo stesso dovrebbe fare
chi si dice essere ancora di sinistra.
Nel jobs act ci sono
anche altri provvedimenti che non vanno bene.
C'è una norma sul
cosiddetto demansionamento (art.13 dello Statuto, anche se non lo si
dice) che non lascia certo tranquilli i lavoratori né sulla loro
professionalità né sulla possibile riduzione salariale. Ugualmente
preoccupante è l'intenzione di controllare a distanza i lavoratori
con nuove tecnologie (art. 4 Statuto). Ecc. Ce n'è a sufficienza
per prepararci a una lunga e dura opposizione che il 25 ottobre a
Roma dovrà cominciare bene e con una grandissima partecipazione.
Tutti a Roma dunque.